Portrait

Denis


Monza 2021
Denis, Un lavoro “semplice semplice”…

È stato complicato riuscire ad incontrare Denis, ho trascorso due pomeriggi aspettando invano di poter scambiare due chiacchiere con il ragazzo nigeriano. Ogni volta era a dieci minuti di strada oppure sul treno in arrivo verso una stazione vicina ma, orologio alla mano, sempre troppo lontana. Ci metto poco a capire che non ha alcuna intenzione di parlare con me del suo lavoro da rider. Denis è uno di quei richiedenti asilo dall’atteggiamento beffardo, strafottente ed arrogante, poco incline a fidarsi e collaborare con l’uomo bianco. Eppure, impietosito o forse annoiato dal mio insistere, una sera giunto al centro di accoglienza slaccia il caschetto nero da ciclista, sbuffa, e poi con il suo solito ghigno mi dice con tono intimidatorio “ma non voglio che si sappia in giro perché già lo faccio per quattro soldi, non voglio rotture di coglioni”. Lo rassicuro sul fatto che sono dalla sua parte, non potrei né vorrei mai danneggiarlo. Così il ragazzo inizia a parlare: “Io in bici ci sono sempre andato, mi è sempre piaciuto. Questa mountain bike ha affrontato mille battaglie eppure è indistruttibile. Il cambio l’ho martoriato, ma non si è mai rotto. I freni quelli sì, il mio amico Michael me li ha cambiati un paio di volte”. La mountain bike non è esattamente nuova di pacca, dev’essere stato un bel pezzo di bicicletta, prima che Denis ci macinasse sopra chilometri su chilometri. Il ragazzo racconta che quando ha sostenuto il colloquio conoscitivo si sono presentati oltre a lui un’altra trentina di ragazzi. In trenta per fare un mestiere che promette tre euro a consegna, senza contributi, senza contratto, senza tutele assicurative, con il mezzo proprio, i rischi propri, il sudore proprio. Senza un domani e senza un perché. “Si accetta per bisogno – ragiona Denis – e perché, tutto sommato, è un lavoro semplice semplice. E poi, qualche volta, le mance ci scappano pure. Ma ovviamente, il capo non lo deve mai sapere”. Denis indossa caschetto nero, pettorina arancio e sulle spalle si carica quotidianamente il suo zaino portavivande: “È meglio che fare le consegne in scooter, se non altro si risparmia la benzina. La pioggia? Certo, quando piove è un casino”.

Il ragazzo è caduto un paio di volte: “Una era colpa mia. Ho frenato con l’asfalto viscido e mi sono ribaltato. L’altra, ho sbandato dopo che un’auto non si è fermata allo stop. Mi è andata di lusso, avrebbe potuto schiacciarmi. Sono risalito in bici e ho proseguito a lavorare. Anche perchè, senza assicurazione dove posso andare? Cosa posso fare? A chi la racconto?”. Conosco ragazzi che hanno preso un cazziatone perché facevano troppe poche consegne o perché pedalavano lentamente. Ho iniziato due giorni a settimana, ora sono diventati sei su sette. Dalle quattro alle sei ore al giorno, con le punte a cena e qualche volta pure a pranzo. Praticamente, quasi un tempo pieno. All’inizio il datore di lavoro mi ha convinto, mi ha fatto un sacco di complimenti. Poi, sono arrivati altri ragazzi ed è iniziata una concorrenza spietata. A strapparci le consegne l’un l’altro. Vado avanti perché tutto sommato pedalare mi piace. A Milano, in fondo, non si lavora male. Le persone sono gentili e quasi sempre riconoscenti. In estate con i turisti va pure meglio. Con i soldi che guadagno mi piacerebbe pagarmi la patente e poi comprarmi un’auto e magari trovare un altro lavoro. “Il rider è un’esperienza estrema ed al momento senza essere automunito ogni volta che cerco lavori più seri non mi caga nessuno”. “Avremmo bisogno di maggiori tutele, so che esiste un sindacato, ma cosa mi iscrivo a fare? Quasi nessuno di noi lo è. Mancando delle regole precise, che cosa possiamo rivendicare?”. E mentre la politica latita Denis riallaccia il casco, batte il cinque e inforca nuovamente il pedale. “Oh, mi raccomando… Poi sennò la patente me la paghi tu”. Intanto scappa via in sella alla sua mountain bike, e viene da pensare a quanto entusiasmo metta comunque, in un lavoro così assurdo.






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