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Monza 2021
Bright, I’m a rider
Conobbi Just Eat grazie al mio amico Francis. All’inizio lo considerai un povero illuso, un ingenuo che credeva in guadagni promessi da una stupida applicazione per smartphone. Pareva un gioco, non faceva per me, io stavo cercando un lavoro vero. Ne ero sicuro, ci pensavo sempre, come un’ossessione sapevo che ottenere un contratto dignitoso sarebbe stato l’unico modo per ripagare i sacrifici ed animare le speranze della mia povera famiglia in Nigeria. Ogni chiamata, ogni contatto con loro era carico di aspettative puntualmente deluse dal mio “ancora niente”. Mi sentivo inutile ed impotente, vano ogni tentativo di far comprendere loro la difficoltà di entrare nel mondo del lavoro. Aspettavano una ricompensa, nel cuore sentivo che forse la meritavo anche io.
Un sabato notte, sotto la pioggia d’ottobre, Francis verso le 2.00 fece ritorno al centro portando con sé una luce nuova. Ricordo che cantava stonato accompagnato dalla cassa speaker bluetooth, sua fedele compagna di pedalate. Lo guardavo curioso mentre scendeva dalla sella della bici agitando davanti a me come uno scemo il cellulare. Sorridendo fiero mi guardò e disse: “this night was a good night”. Non mi confidò mai quanto avesse guadagnato quella sera, trovai la mia risposta in quegli occhi accesi di speranza capaci di oscurare una fronte stanca e grondante di sudore. Potevano uno smartphone ed una bici produrre un cambiamento nella mia vita? Decisi di scoprirlo, dopotutto non avevo nulla da perdere. Non fu facile per me capire come iscriversi ed avviare l’attività, conosco poco la lingua italiana così mi affidai ciecamente al mio amico. Cambiai camere d’aria alla mia vecchia ed arrugginita bicicletta blu, la stessa con cui ogni giorno mi recavo alle porte dell’Eurospin per chiedere l’elemosina. I giorni trascorrevano sempre uguali tra saluti, sorrisi di circostanza e piccoli gesti di cortesia ripagati, solo ogni tanto, da cuori compassionevoli. Una settimana di mortificazione arrivava a fruttarmi anche 40 euro, ma sentivo chiaramente che non avevo lasciato la mia terra per questo.
Ho impiegato qualche mese prima di capire il mestiere del rider. La città di Monza era diventata il mio luogo di lavoro, non avendo i soldi per i mezzi pedalavo 50 minuti per raggiungerla dal centro di accoglienza di Burago di Molgora. Arrivavo a Monza già affaticato ma probabilmente mi stancavo ancor di più aspettando fermo ore ed ore che arrivasse l’attesa notifica sul telefonino. Confesso che con quello zaino rosso vuoto a forma di cubo sulla schiena fermo come il tempo che non passava mai accanto al mio rottame arrugginito mi sentivo stupido, stavo letteralmente buttando via il mio tempo. Mi presentavo a quelle poche consegne che mi aggiudicavo svogliato e puntualmente in ritardo. I miseri guadagni non giustificavano minimamente la fatica e la noia; il momento peggiore era tornare a fine giornata al centro desiderando solo di addormentarmi per mettere in pausa questo mondo ingiusto. Un pomeriggio di gennaio ebbi la fortuna di incontrare in stazione Zakaria, fidato compagno di viaggio conosciuto in Libia ed ora rider di Uber. Ci abbracciammo e rimanemmo un po’ a raccontarci quali direzioni avevano preso le nostre strade da quando si separarono dopo lo sbarco a Pozzallo. Lui rivide in me le stesse difficoltà da lui sofferte sei mesi prima quando cominciò la sua avventura da fattorino. Mi prese in simpatia e mi invitò a seguirlo, divenne così il mio maestro. Mi insegnò fasce orarie e giorni da privilegiare, luoghi strategici della città dove appostarmi. Nel giro di due mesi riuscii a mettere da parte un gruzzoletto utile a comprarmi una mountain bike usata dotata di marce, un mezzo bellissimo che divenne presto la mia alleata e migliore amica. Avevo usato tutti i risparmi per acquistarla, stavo sempre attento a proteggerla da furti e sguardi indiscreti. Le notifiche sul cellulare si intensificarono, ognuna aveva lo strano potere di generare ed alimentare in me un crescente senso di autostima. Guadagnavo poco più di 500 euro al mese, ma per me erano tantissimi e le pedalate diventarono ben presto passi verso l’autonomia, un passaporto verso il rispetto perché finalmente potevo rispondere ai miei familiari: “I’m working, i’m a rider”.